Il digiuno intermittente e la perdita di peso

Il digiuno intermittente è una tipologia specifica di protocollo che fa parte del grande calderone delle “diete del digiuno”.

Il digiuno intermittente è una pratica che per le persone competenti del settore è nota come uno dei tanti protocolli di Time Restricted Feeding (TRF), in cui è presente prevalentemente un periodo di digiuno che può durare da diverse ore a diversi giorni alternato con periodi di iperalimentazione che però hanno dei vincoli temporali ben precisi.

Il più famoso di questi protocolli è il digiuno intermittente 16/8 in cui sono presenti all’interno della stessa giornata 16 ore di digiuno completo a cui alternare 8 ore in cui ci si può alimentare liberamente oppure secondo una dieta ben precisa.

Nelle ore di digiuno è possibile assumere solo liquidi senza calorie come acqua, tè o tisane, oppure degli integratori specifici che tuttavia non danno calorie al corpo.

Questo protocollo è uno dei più famosi anche perchè è il più semplice da affrontare anche per chi non è abituato a digiunare in quanto all’atto pratico consiste nel saltare la colazione oppure saltare la cena a seconda della forbice oraria che scegliamo.

Poi esiste la Warrior Diet in cui vige lo stesso principio ma con maggiori ore di digiuno interrotte solo da un singolo pasto della giornata della durata di 2/4 ore.
Infatti questo protocollo è noto ai più come digiuno intermittente 20/4 oppure 22/2.

E’ un protocollo adatto a persone che hanno già familiarità con lo stare a digiuno e si vogliono spingere verso “nuove sfide”. Non è adatto per i soggetti che non riescono a mangiare molto durante un singolo pasto o hanno patologie del tratto digerente specialmente patologie dello stomaco.

Un altro protocollo è quello cosiddetto dell’ EAT STOP EAT in cui il periodo di digiuno non avviene all’interno della stessa giornata ma della settimana.

Questa metodica consiste nel mangiare un po’ di più 5 giorni a settimana per poi digiunare o quasi digiunare per 2 giorni in cui si possono assumere solo liquidi a zero calorie oppure qualche porzione di verdura.

Infine una delle metodiche più famose negli ultimi anni grazie alla trasmissione ‘le iene’ è quello del Dott. Walter Longo e consiste nella cosiddetta Fast-Mimicking Diet o Dieta Mima Digiuno.

Questa dieta consiste nel digiunare completamente per 3 giorni oppure nel seguire una dieta con prodotti e alimenti specifici per la durata di 5 giorni che appunto vanno a mimare un digiuno mangiando una quota di alimenti sempre decrescente in calorie fino al quinto giorno.

 

Tutte queste metodiche sono molto affascinanti ma… funzionano davvero?

 

La risposta è si.  Queste diete hanno la potenzialità di far ‘depurare il corpo da tutti gli scarti cellulari’ durante il periodo di digiuno risvegliando alcuni meccanismi metabolici e ormonali che all’atto pratico esitano in una perdita di peso del soggetto e ad un effetto anti aging ( o come piace chiamarlo a noi dell’HWC Pro-aging).

Ottimo! Allora tutti a fare il digiuno intermittente!

Ma non andiamo così in fretta. Gli studi hanno accertato che non vi è una superiorità in termini di perdita di peso e sostenibilità rispetto ad altri protocolli ipocalorici in quanto tutti i ‘miracolosi’ effetti del digiuno sono causati dal banalissimo ma sempre sottovalutato deficit Calorico che si può instaurare con una banale dieta ipocalorica mediterranea o chetogenica o di altro tipo.

 

Quindi ci prendono in giro?

 

No, il digiuno intermittente è una metodica valida che però deve adattarsi bene alle abitudini e stili di vita del paziente e può rivelarsi un’ottima risorsa se utilizzato in maniera consona e contestualizzata ad un adeguato percorso dietetico.

Il digiuno intermittente può essere utilizzato anche come metodica di cambio protocollo quando quelli classici non stanno funzionando oppure i risultati iniziano a stallare.

C’è da dire che non è per tutti.

le donne mal tollerano i periodi di iperalimentazione e gli sbalzi calorici in generale, mentre uno sportivo che cerca un aumento della massa muscolare o la conservazione della stessa è bene che non lo faccia in quanto un periodo di digiuno prolungato può ostacolare quello che è il meccanismo della sintesi proteica necessaria per rendere i muscoli più tonici e grandi.

Quindi la risposta è: affidatevi a dei professionisti qualificati che sanno quando e come utilizzare questi ottimi protocolli e renderli più adatti a voi, evitando il fai da te come sempre.

 

Dieta chetogenica per dimagrire: Funziona davvero?

Molte persone hanno sentito parlare di amici o parenti che hanno seguito la dieta chetogenica e hanno perso tanto peso in maniera rapida con grande soddisfazione e soprattutto mangiando a sazietà, semplicemente escludendo i carboidrati dalla propria dieta e sostituendoli con i grassi.

Dunque possiamo dire che la dieta chetogenica è la dieta definitiva? I grassi sono davvero meglio dei carboidrati?

In questo articolo approfondiremo l’argomento partendo da definire cos’è la dieta chetogenica, i meccanismi che ne stanno alla base, perché aiuta a dimagrire e un esempio di pianificazione nutrizionale giornaliera in stile chetogenico.

La dieta chetogenica nasce nel 1920 per curare l’epilessia nei bambini resistenti alle normali terapie farmacologiche.

I medici dell’epoca avevano notato per la prima volta che quando il corpo per produrre energia ricorreva ai grassi invece che ai carboidrati i loro piccoli pazienti riducevano la frequenza dei loro attacchi epilettici ed in alcuni casi gli attacchi sparivano del tutto da 1 a 7 anni.

Successivamente il dott. Atkins nel 1970 propose una dieta simile per il dimagrimento rapido rendendola più popolare, fino a che il dott. Blackbourne negli anni ‘90 non mise a punto un protocollo di dieta chetogenica a bassissime calorie come possibile soluzione nel contrastare il fenomeno dell’obesità che imperava (ed impera tutt’oggi) negli Stati Uniti.

Per dieta chetogenica si intende una dieta in grado di produrre i cosiddetti corpi chetonici che sono in grado di instaurare uno stato metabolico particolare chiamato chetosi fisiologica.

Per far sì che questo accada il corpo nei suoi processi metabolici deve trovarsi in scarsità o assenza di zuccheri a disposizione.

I corpi chetonici vengono prodotti a partire dai grassi o da amminoacidi chetogenici, i quali possono essere introdotti con la dieta (chetosi esogena) oppure arrivare dai depositi di grasso e muscolo dell’organismo (chetosi endogena).

“Ma come fa questa particolare dieta a fare dimagrire così velocemente?” 

Il segreto sta nella sazietà indotta dai grassi e dalle proteine sebbene il corpo sia in restrizione calorica anche marcata.

Pertanto la persona che attua questo particolare protocollo dietetico può sopportare decisamente meglio gli attacchi di fame che inevitabilmente intercorrono quando si intraprende una dieta ipocalorica classica, aumentando le probabilità di successo della dieta stessa.

Questo è dovuto all’ormone colecistochinina (CCK) che viene liberato soprattutto nel duodeno dopo un pasto ricco di grassi, combinata con l’azione del peptide YY secreto dal pancreas il quale viene liberato durante un pasto a prevalenza proteica.

“Fantastico!” direte voi “allora facciamo tutti la dieta chetogenica”

Non è così semplice come può sembrare in quanto dobbiamo ricordarci che il corpo utilizza gli zuccheri per ottimizzare i propri processi metabolici, mentre la chetosi costituisce sempre e comunque una meccanismo metabolico di riserva o di emergenza. 

Si ricorda che le vie metaboliche utilizzate durante la dieta chetogenica sono le stesse impiegate durante il digiuno. Quindi va da sè che non è un meccanismo sostenibile sul lungo periodo. 

I corpi chetonici sono energeticamente inefficienti dal punto di vista metabolico: in altre parole i meccanismi che contribuiscono alla loro formazione sprecano molta più energia rispetto a quelli normali che utilizzano gli zuccheri.

Inoltre la dieta chetogenica non è un semplice regime alimentare ma un vero e proprio strumento terapeutico nelle mani dei professionisti della salute per contrastare condizioni gravi di obesità, casi clinici in cui il paziente non riesce a perdere peso con un approccio ipocalorico classico, in preparazione ad un intervento o in alcuni quadri di malattia neurologica.

Dunque la dieta chetogenica è un protocollo dietoterapico per la rapida perdita di peso da utilizzare in un periodo di tempo limitato in una selezionata categoria di persone e da attuare seguiti da un professionista della salute.

Al giorno d’oggi purtroppo troviamo on-line app oppure siti che permettono di intraprendere una dieta chetogenica in autonomia promettendo grandi risultati in poco tempo.

La pericolosità di questi programmi consiste nel proporre suddetto protocollo dietoterapico allo scuro dello stato di salute della persona e soprattutto senza l’aiuto di un nutrizionista qualificato esponendo l’utente ignaro a potenziali rischi per la propria salute.

Dopo aver letto questo articolo confidiamo che avrai più consapevolezza quando ti troverai davanti a queste vere e proprie truffe!

Di seguito indichiamo una pianificazione tipo di un paziente che segue una dieta chetogenica:

Colazione

2 uova strapazzate con bacon croccante

Spuntino

3 noci

Pranzo

Salmone affumicato con asparagi saltati al burro

Merenda

1 vasetto di yogurt intero con mandorle tritate

Cena

Bistecca di vitello con salsa guacamole piccante e Broccoli saltati in padella

Per approfondire:

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/25698989/
https://europepmc.org/article/med/8828002

I benefici dell’Omega 3 per l’apparato cardiovascolare

Con il termine acidi grassi (abbreviazione FA, dall’inglese Fatty Acids) si indicano gli acidi monocarbossilici alifatici. Sono, con poche eccezioni, a lunga catena, con un numero pari di atomi di carbonio, senza ramificazioni e aciclici (cioè costituiti da molecole che non presentano catene chiuse ad anello); possono essere saturi (se la loro molecola presenta solo legami singoli C-C) o insaturi (se presentano doppi legami C=C). Sono gli ingredienti costitutivi di quasi tutti i lipidi complessi e dei grassi vegetali e animali.

Negli ultimi 3 anni nella comunità scientifica la posizione degli Omega 3 legata alla loro principale funzione di prevenzione degli eventi cardiovascolari è stata messa in dubbio, ma prima di approfondire andiamo a vedere nel dettaglio quali sono gli acidi grassi omega 3 più utilizzati a scopo nutraceutico e che funzioni possono assolvere in relazione al nostro stato di salute:

  • DHA: L’acido docosaesaenoico (DHA) è un grasso omega-3 o PUFA n-3. Per quanto riguarda la struttura chimica, il DHA è un acido carbossilico con una catena di 22 atomi di carbonio e 6 doppi legami in posizione cis; il primo doppio legame si trova sul terzo carbonio contando dalla posizione terminale omega del gruppo metile. Sono ricchi di DHA i pesci oceanici di acque fredde, inoltre, per scopi commerciali il DHA viene prodotto anche a partire da alcune microalghe.
  • ALA: L’acido α-linolenico (ALA) è un acido grasso n-3 insaturo della serie omega-3; è un liquido incolore a temperatura ambiente. Nella letteratura è anche chiamato 18:3 ω3. Chimicamente, l’acido alfa-linolenico è un acido carbossilico con una catena di 18 atomi di carbonio e tre doppi legami in cis, il primo doppio legame si trova sul terzo carbonio a partire dalla fine del gruppo metilenico della catena carboniosa. Gli ALA si possono trovare in alimenti vegetali, incluso certi tipi di noci e semi.
  • EPA: L’acido eicosapentaenoico (EPA), detto anche acido icosapentaenoico, è un acido grasso omega-3. Il suo nome in letteratura è 20:5(n-3). L’EPA è un acido grasso polinsaturo (PUFA) che agisce come precursore della prostaglandina 3 (la quale inibisce l’aggregazione piastrinica), trombossano 3 e i gruppi di leucotrieni 5 (tutti eicosanoidi). Si trova in alimenti come: merluzzi, aringhe,sgombri,salmoni e sardine e nel latte materno umano.

Evidenze scientifiche

La principale funzione che hanno gli acidi grassi Omega 3 relazionati al rischio cardiovascolare sono imputati principalmente alla loro capacità di contrastare le forme lievi-moderate di ipertensione arteriosa e la loro spiccata funzione antinfiammatoria.
Più nel dettaglio dalle recenti evidenze scientifiche possiamo dedurre che:

  • Gli acidi grassi omega 3 sono associati a una significativa riduzione sia del PAS (pressione arteriosa sistolica) e della PAD (pressione arteriosa diastolica) da 11 a 4 mmHg, con effetto dose dipendente a circa 1 g al giorno nei grassi monoinsaturi (estratto d’olio d’oliva)
  • Miglioramento dell’onda sfigmica e decremento della PAS e PAD da 2 a 4 mmHg per quanto riguarda i PUFA omega 3.

Sono stati suggeriti numerosi meccanismi mediante i quali i PUFA possono migliorare il controllo della PA:

  1. aumentata produzione e biodisponibilità di ossido nitrico (NO) a livello endoteliale attraverso l’up-regulation e l’attivazione della ossido nitrico sintasi endoteliale (eNOS)
  2. sbilanciamento della sintesi di prostaglandine a vantaggio di quelle vasodilatatrici
  3. riduzione dell’insulino-resistenza
  4. regolazione del tono vascolare tramite la stimolazione del sistema nervoso parasimpatico 5. soppressione del sistema renina-angiotensina-aldosterone

Una grande metanalisi uscita nel 2018 “Omega‐3 fatty acids for the primary and secondary prevention of cardiovascular disease” aveva messo in dubbio il ruolo di questi preziosi nutraceutici che vengono tradizionalmente usati in ambito cardiologico e non in tutti i pazienti post evento acuto (infarto, ictus etc), in quanto da questa metanalisi ,che aveva messo a confronto 79 trial randomizzati controllati includendo un totale di 112,059 partecipanti, risultava che ci fosse un’evidenza medio alta che la loro regolare somministrazione non era correlata a un diminuito rischio di eventi avversi di natura cardiovascolare come morte improvvisa, rischio di reinfarto, o ictus.

Di recente invece ben due revisioni sistematiche una del 2019 “Marine Omega-3 Supplementation and Cardiovascular Disease: An Updated Meta-Analysis of 13 Randomized Controlled Trials Involving 127 477 Participants” e una recentissima del 2020 “Impact of Different Doses of Omega-3 Fatty Acids on Cardiovascular Outcomes: a Pairwise and Network Meta-analysis” hanno restituito giustizia al prezioso contributo che queste molecole possono dare ai nostri pazienti smentendo i risultati della review del 2018 e in particolare in quella del 2020 si evince che la somministrazione giornaliera di più di 1 g di omega 3 riduce in maniera significativa la probabilità di evento avverso cardiovascolare.

Questo cosa sta a significare? che non c’è da fidarsi degli scienziati o degli operatori sanitari?
Assolutamente no.

Questo sano confronto scientifico ci insegna che la nutraceutica è una scienza e come tale non vive di dogmi o realtà assolute ma viene costantemente approfondita e testata in modo tale da garantire le linee guida migliori per gli operatori sanitari che prendono in carico giorno dopo giorno la salute dei propri pazienti.

I benefici del Melograno

Il melograno è considerato nativo dell’Asia centrale e in particolar modo di un’area compresa tra l’Iran, il Turkmenistan e l’India settentrionale, sebbene, data l’alta adattabilità di questa pianta a svariate condizioni climatiche e varietà di suoli, esso viene coltivato in differenti regioni geografiche, tra cui il bacino del Mediterraneo, l’Asia e la California.

Circa il 50% del peso totale della melagrana corrisponde alla buccia e alle membrane carpellari che rappresentano una fonte importantissima di composti bioattivi, flavonoidi, ellagitannini, proantocianidina e minerali tra cui il potassio, l’azoto, il calcio, il fosforo, il magnesio ed il sodio.

Per questo motivo, i prodotti nutraceutici e i condimenti alimentati elaborati con estratti di buccia e membrane carpellari possono essere una fonte importante di tutti questi composti se trattati in modo corretto.

La parte commestibile della melagrana rappresenta circa il 50% del peso totale ed è formata nell’80% dagli arilli (parte carnosa) e nel 20% dai semi (parte legnosa).

La composizione dei chicchi di melagrana è la seguente: acqua (85 %); zuccheri (10 %), in particolare fruttosio e glucosio; acidi organici (1,5 %), in particolare acido ascorbico, citrico e malico; composti bioattivi come polifenoli e flavonoidi (in particolare antocianine). Inoltre, i chicchi di melagrana sono una fonte importante di lipidi in quanto i semi contengono acidi grassi che oscillano dal 12% al 20% del peso totale (peso asciutto).

Gli acidi grassi si caratterizzano per un elevato contenuto di acidi grassi insaturi come l’acido linolenico, linoleico, punico, oleico,stearico e palmitico.

Uno degli ambiti di ricerca di gran attualità e di massimo interesse è lo studio dei componenti bioattivi della melagrana e gli innumerevoli effetti sul miglioramento della salute umana.

Nello specifico, il consumo del succo di melograno ha mostrato efficacia nella riduzione della progressione del tumore alla prostata e contro altri tipi di cancro, nella protezione contro le malattie cardiovascolari, nell’attività antimicrobica e contro il diabete.

Molti di questi effetti a beneficio della salute umana sono stati associati alla capacità antiossidante del succo, che è stimata essere tre volte superiore rispetto a quella del vino rosso o del tè verde.

La buccia della melagrana è ricca di tannini idrolizzabili, in particolare punicalina, pedunculagina e punicalagina. Invece i semi sono ricchi di acidi fenolici, in particolare l’acido gallico e l’acido ellagico.

  • L’acido ellagico è un tannino, una molecola altamente termostabile e possiede proprietà sia lipofile dovute ai suoi quattro anelli aromatici, sia idrofile dovute ai due sistemi lattonici a sei termini che funzionano da accettori di elettroni e quindi creano le condizioni per la formazione di legami a idrogeno. L’acido ellagico ha importanti attività biologiche tra cui antitumorali, antivirali, antimicrobiche
  • Gli ellagitannini, quali punicalina e punicalagina, sono tannini idrolizzabili, composti non azotati con un peso molecolare compreso tra 300 e 20.000 Dalton. Questi composti hanno un ruolo fondamentale nella pianta in quanto sono antimicrobici, funzionalità dovuta alla capacità di formare complessi forti con le proteine e con i polisaccaridi, al fine di inibire la crescita microbica.

La punicalagina, è un composto presente solo nel melograno, ed è il composto fenolico più grande tra gli ellagitannini, con un peso molecolare superiore ai 1.000 Dalton. Ad esso è imputata la gran parte delle proprietà antiossidanti del succo di melograna. La punicalagina, presente in natura sotto forma dei due anomeri α e β, è presente quasi esclusivamente nella buccia. Presenta diverse proprietà farmacologiche, tra le quali proprietà anti-infiammatorie, antiprofilerativa, pro-apoptotica e antigenotossica.

È estremamente importante la composizione basata su acidi grassi essenziali (linoleico, linolenico e arachidonico) soprattutto per il suo contenuto in acidi grassi poli-insaturi.
Gli ellagitannini possono essere trasformati in urolitine; l’urolitina A potrebbe considerarsi il composto antinfiammatorio più attivo legato all’ingerimento della melagrana. Nel colon i processi antiinfiammatori potrebbero essere dovuti alla frazione non metabolizzata degli ellagitannini.

La punicalagina è il polifenolo con maggior peso molecolare conosciuto che si idrolizza in acido ellagico e si metabolizza nel tratto intestinale creando urolitine. Le punicalagine sono i composti che presentano una maggior capacità antiossidante o di cattura dei radicali liberi e sono responsabili del 50% di questa attività nel succo di melagrana, assieme ad altri tannini idrolizzabili (33 % dell’attività totale), e all’acido ellagico (3 %)

Le attuali ricerche in campo medico riguardanti le proprietà curative del melograno sono rivolte alla prevenzione contro tumori, malattie cardiovascolari, Alzheimer, malattie infiammatorie, malattie orali e cutanee, obesità, disfunzioni erettili, disturbi gastrointestinali, disturbi dovuti al diabete, cancro della prostata, delle mammelle e del colon, iperlipidemia, ipossia, invecchiamento, malattie cerebrali, e Aids. In particolar modo, gli studi legati al melograno sono finalizzati alla ricerca e all’inibizione di alcuni enzimi grazie ai composti fitochimici contenuti in questo frutto. Tra questi enzimi troviamo le metalloproteinasi, fattore di crescita vascolare endoteliale e le lipossigenasi.

L’aspetto che maggiormente ha attirato l’attenzione dei ricercatori è l’attività che ha il succo di melograno in campo cardiovascolare e tumorale.
Sono stati effettuati diversi studi in vitro, con animali e con umani, con diversi prodotti a base di melagrana per la prevenzione e la riduzione dell’aterosclerosi e l’ossidazione delle LDL.

Hanno analizzato l’effetto che svolge il consumo di succo di melagrana in uomini sani sull’ossidazione del LDL e hanno determinato che l’LDL diminuiva incrementando l’attività delle HDL di circa il 20%. Con l’ingerimento del succo di melagrana esiste un effetto favorevole sul progresso dell’aterosclerosi e, di conseguenza, sullo sviluppo di malattie coronarie.

Il Dottor Aviram ha effettuato diversi esperimenti con pazienti sani e ipertesi a cui ha somministrato succo di melagrana durante diversi periodi di tempo. Conclusi questi studi è giunto alla conclusione che la pressione sanguigna è diminuita del 36% dopo due settimane di trattamento con succo di melagrana. Questa diminuzione è stata possibile grazie all’elevato potere antiossidante dei polifenoli.

Per quanto riguarda invece il campo oncologico Albretch et al. (2004) hanno studiato l’effetto dell’olio di melagrana, dei polifenoli della buccia e delle membrane e dei polifenoli del succo fermentato sul tumore alla prostata. Tutti questi agenti separatamente frenavano la proliferazione in vitro di cellule tumorali su cellule umane di LCNaP, PC-3 e DU 145 dimostrando così un’evidente attività antitumorale dei prodotti derivati dalla melagrana sul tumore alla prostata.

González-Sarrías et al. (2009) hanno suggerito che l’acido ellagico e i rispettivi metaboliti come le urolitine A e B possono contribuire alla prevenzione del tumore al colon. Hong et al. (2008) hanno dimostrato che il succo e gli estratti di melagrana hanno un’elevata capacità di arresto della proliferazione e sono in grado di stimolare l’apoptosi nelle cellule tumorali della prostata. Recentemente, Koyama et al. (2010) hanno dimostrato che una cura sulle cellule LAPC4 della prostata con estratti di melagrana con un contenuto stabilizzato di ellagitannini (punicalagina) del 37% riduce lo sviluppo favorendo l’apoptosi.

Le proprietà della Curcuma

La curcuma è il nome colloquiale della spezia che si ricava dal tubero della Curcuma Longa, una specie vegetale imparentata con la stessa dello zenzero.

Il suo principale componente attivo è la Curcumina che è contenuta nei due componenti attivi della curcuma ovvero l’olio volatile e i curcuminoidi (pigmenti) ed entrambi sono presenti sotto forma di oleoresina estratti dalla radice della curcuma. L’olio essenziale è composto principalmente da sesquiterpeni, molti dei quali sono specifici per il genere Curcuma.

Molto decantata da blogger e food influencer, ma anche studiata nel mondo accademico per le sue proprietà, raramente si trovano informazioni riguardo al suo corretto utilizzo al fine di poterne godere appieno.

Le sue proprietà curative:

L’integrazione della curcuma comporta notevoli proprietà curative e preventive riguardo alla maggior parte delle malattie croniche che colpiscono la popolazione occidentale e non solo.

Infatti essa è grado di:

  • Favorire l’uptake di glucosio stimolando la secrezione di insulina da parte del pancreas e riducendo l’insulino resistenza che si accompagna spesso al diabete di tipo 2
  • Ha una notevole azione antinfiammatoria e antiossidante regolando la secrezione di alcune leuchine proinfiammatorie, delle ciclossigenasi e l’espressione del TNF – alfa, quindi agendo anche sulla pressione arteriosa e l’aterosclerosi.
  • Sembrerebbe avere anche proprietà neuroprotettive riducendo di molto lo stress ossidativo a livello mitocondriale che si è visto essere alla base di malattie come la sclerosi multipla

Tutto fantastico! Ma…

Peccato che la maggior parte della gente non sa come assumerla in quanto si sente di pane alla curcuma, grissini alla curcuma, o al suo uso indiscriminato su alcuni dolci e salse.

Questo non è una novità perché la curcuma è utilizzata in campo culinario soprattutto come colorante e aromatizzante naturale visto il suo colore giallo intenso, ma se vi avvicinate a prodotti contenenti curcuma per i suoi “effetti curativi” purtroppo rimarrete delusi.

Infatti le belle proprietà della curcuma si scontrano con la sua bassa biodisponibilità una volta assunta per via orale che ne riduce i livelli sierici al 2% una volta ingerita.

Fino dai primi studi scientifici sulla curcuma fu notata la sua scarsa biodisponibilità. Infatti, dopo la sua somministrazione orale la concentrazione di curcumina nel sangue è estremamente bassa se non addirittura assente.

La curcumina assorbita nell’intestino viene rapidamente metabolizzata ad opera prevalentemente del fegato. I prodotti derivati da tale processo sono per la massima parte eliminati con la bile e solo in piccola percentuale immessi nel sangue attraverso il quale raggiungono i tessuti.

Non è chiaro quanto gli effetti della curcuma siano dovuti ai metaboliti epatici della curcumina. Per migliorare l’efficacia della curcuma e quindi aumentare il suo assorbimento, sono state proposte varie strategie:

  • Sia in modelli animali che nell’uomo l’associazione con piccole quantità di piperina (contenuta nel pepe) è in grado di aumentare le concentrazioni plasmatiche della curcumina dopo somministrazione di una determinata quantità di curcuma. Probabilmente l’effetto è imputabile alla riduzione da parte della piperina dei processi di trasformazione epatica della piperina e della curcumina.
  • Anche l’aggiunta di olio essenziale di curcuma può incrementare l’assorbimento intestinale della curcumina, così come la sua incorporazione in nanoparticelle.
  • Ma è soprattutto la formulazione sotto forma di complessi fosfolipidici (lecitina) e curcumina ad aver dimostrato di incrementare notevolmente l’assorbimento e le concentrazioni plasmatiche di questa sostanza. Per tale motivo la “curcumina fosfolipide” viene oggi ritenuta uno dei modi più efficaci di somministrare la curcuma per scopi preventivi o terapeutici.

Quindi che fare?

Per assumerla bisogna combinarla con grassi e pepe nero, ma non grassi qualsiasi bensì fosfolipidi che possiamo trovare nelle uova, nei formaggi, o nella soia, aumentando la sua biodisponibilità al 40%!

Se non si segue questa indicazione le sue proprietà verrebbero sprecate e rimarrebbe semplicemente una spezia da tavola.

Le dosi sono dai 3 ai 5 grammi al giorno consumata nel modo che vi ho detto.